Siamo in cerca di storie. Piccoli, grandi, giovani, vecchi, è quello che ci interessa.
L’origine è antica. L’essere umano ha subito avuto bisogno di raccontare storie: incidendone le immagini, o praticando rituali, prima ancora di avere la parola. Giunto il linguaggio sono naturalmente arrivate le leggende, i miti e le fiabe: forme di saggezza antica che connettevano gli individui, trasmettendo il sapere della comunità, esorcizzando la paura e catalizzando il coraggio.
I cantastorie si sono adattati ad ogni epoca. Aedi erranti, menestrelli, drammaturghi e cantautori: la forma si è trasformata rispondendo alle necessità del pubblico.
Il grande cantastorie del ventunesimo secolo è stata la televisione: veicolo culturale per un’intera generazione, finché non ci si è ritorta contro.
Oggi abbiamo eletto a cantastorie le applicazioni, gli youtuber e gli influencer con le loro “storie”. Ma questi narratori non possono darci quello di cui abbiamo realmente bisogno perché sono soltanto il riflesso mediatico di un essere umano, confezionato e irreale.
Il cantastorie è di carne e ossa e racconta dal vivo: solo così può crearsi un legame empatico e di conseguenza esorcizzare la paura, catalizzare il coraggio e trasmettere la saggezza.
E’ la vicinanza tra esseri umani a tessere le storie, non le barriere.
Nell’ambito dell’educazione c’è grande bisogno di narrazione e cantastorie, efficaci veicoli a sostegno della didattica, per agire sull’umanità della nuova generazione.
I bambini narrano di per sé, istintivamente: è il modo più immediato per analizzare la realtà, immagazzinare informazioni, rielaborarle. Lo facciamo anche da adulti, quando raccontiamo un episodio a qualcuno, magari ripetendolo più volte proprio per comprenderlo, digerirlo.
Necessarie sono le storie per creare empatia, sensibilità, compassione e rispetto.
E’ importante conoscere questo strumento e saperlo usare, specialmente oggi, per restare umani.